lunedì 9 febbraio 2009

La storia dimenticata: la vicenda dei lager italiani per l'internameno degli slavi durante il regime fascista

Una delle più devastanti operazioni di mistificazione e rimozione storica è stata compiuta per le vicende militari e politiche della guerra fascista e occupazione della ex - Jugoslavia, di cui non si sa praticamente nulla: l’operazione è ben riuscita, tanto che la storia di Trieste e del confine è ormai associata immancabilmente alla vicenda delle foibe, abilmente sfruttata e ingigantita dai fascisti e dalle destre per rimuovere ciò che accadde molto prima di quegli eventi. Il libro di Alessandra Kersevan, sui Lager italiani, ha il merito di illuminare alcuni episodi di violenza e di persecuzione abilmente nascosti. I nomi di Gonars, Arbe, Treviso, Padova, Renicci, Colfiorito, Cairo, Montenotte, Fiume, Visco, Fraschette di Alatri, Melada, Mamula, Zlarin e Antivari non dicono nulla, ma in realtà furono località con dei veri e propri campi di concentramento fascisti. La studiosa denuncia il fatto che nonostante la Jugoslavia e gli altri paesi occupati fornirono abbondante documentazione, i criminali di guerra italiani non vennero mai processati. L’operazione di occultamento fu facilitata dall’operato dei servizi segreti italiani, che costruirono delle memorie di comodo con annessa raccolta di testimonianze per scagionare i criminali.

Inutile che ti scriva come ci troviamo qui a Gonars, lo puoi comprendere da solo; perché, scrivendoti, non lo crederesti, specialmente ora che ci siamo trasferiti un po’ più vicino. Purtroppo la situazione è peggiorata; non sappiamo come ci potremo sistemare e sostenere più oltre. Qui c’è una forte mortalità di bambini e di vecchi, e presto avverrà che anche i giovani dovranno perire, poiché siamo nelle baracche, senza stufa, con un freddo intenso. Vorrei descriverti meglio, ma preferisco tacere. Non riceviamo nemmeno la posta”. Questa lettera è la traduzione di una copia nell’Archivio di Stato di Udine, Commissione di Censura che ovviamente non venne mai recapitata al destinatario perché censurata dalla Commissione (pag. 15). I documenti, riportati nel testo, si riferiscono al periodo novembre 1942, febbraio 1943, rivelano la drammaticità della situazione vissuta nei campi di concentramento fascisti. La ricercatrice, dopo aver ripercorso il non felice trattamento subito dagli slavi fin dal Risorgimento, con le politiche di snazionalizzazione intraprese dal Regno d’Italia, con l’imposizione dell’italiano nelle amministrazioni e nelle scuole (zona Benecija, la cosiddetta Slavia veneta e friulana), si occupa con cura del periodo fascista.

Fa un certo effetto vedere nel saggio un manifesto del Partito Fascista nel quale si legge: “Si proibisce nel modo più assoluto che nei ritrovi pubblici e per le strade di Dignano si canti o si parli in lingua slava. Anche nei negozi di qualsiasi genere deve essere una buona volta adoperata SOLO LA LINGUA ITALIANA. Noi squadristi, con metodi persuasivi, faremo rispettare il presente ordine”. E dalle parole passarono ai fatti: nel luglio 1920 fu bruciata il Narodni Dom, la casa della cultura degli sloveni e dei croati di Trieste. A Strugnano i fascisti arrivarono nel marzo 1921 a sparare su un treno uccidendo due bambini e ferendone altri. Con la dittatura venne continuata l’opera di italianizzazione forzata e venne scatenata la repressione degli oppositori (pag. 27).

Le condizioni peggiorarono con l’occupazione nazifascista, grazie alla creazione di protettorati e annessioni territoriali vere e proprie: tali aggressioni, con la presenza di regimi (appoggiati e voluti da Mussolini) come quello Ustaša di Ante Pavelic provocarono lutti e distruzioni, con la morte di oltre un milione e mezzo di persone. I governatori italiani, come Bastianini, i capi militari, tra cui Roatta, si distinsero nell’opera di snazionalizzazione con i metodi più abietti. Il generale Robotti fu conosciuto per la frase “si ammazza troppo poco”, teorizzando la repressione preventiva degli oppositori, mentre il generale Roatta emanò la famosa circolare 3C, un elenco di disposizioni per combattere il movimento partigiano di liberazione, con la previsione della fucilazione di ostaggi sospettati di essere comunisti, la fucilazione degli uomini adulti dei paesi presso i quali fossero intervenuti atti di sabotaggio (pag. 56), la deportazione del resto della popolazione, donne, vecchi e bambini, l’incendio dei villaggi e il bombardamento degli stessi. Tutte cose che avvennero puntualmente (e testimonianze permangono nell’archivio della repubblica Slovena e nell’Ufficio storico della Stato Maggiore dell’Esercito o nell’Archivio Centrale dello Stato): massacri, come quello di Podhum, che da solo costò la vita a 108 persone, compiuto dalle italiane camicie nere insieme a truppe regolari, il resto della popolazione venne internato. Lo stesso governatore della Dalmazia Bastianini fece preparare il campo di concentramento di Molat, presso Zara, dove furono giustiziati trecento civili presi come ostaggi. Per quanto riguarda il Tribunale Speciale della Dalmazia (tra i cui membri vi fu il famigerato questore di Roma Pietro Caruso), la Kersevan rammenta un episodio vergognoso accaduto in questa Repubblica nel 2007: i parenti del componente fascista del Tribunale, fucilato dagli jugoslavi dopoguerra per i crimini commessi, Vincenzo Serrentino, sono stati omaggiati con la targa “La Repubblica italiana ricorda”. Questo nel Paese dove la Costituzione è nata dalla Resistenza!!!

Tra le disposizioni della circolare 3C, per i soldati era prevista questa raccomandazione : “Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula ‘dente per dente’ ma bensì da quella ‘testa per dente’”, tradotta in internamenti di massa per donne, vecchi e bambini. Il criminale Roatta prevedeva campi di concentramento per 20000 persone per le “necessità della Slovenia”, con l’assegnazione di case e beni dei “ribelli” ai caduti fascisti e militi feriti, con l’intento di avviare una vera e propria pulizia etnica della zona.

Il 24 agosto 1942 Emilio Grazioli prospettava una soluzione per la Provincia di Lubiana, con diverse ipotesi: distruzione, trasferimento forzato, eliminazione degli elementi contrari, propendendo per la costruzione di campi di lavoro per evitare che in questi si oziasse. Gli intenti criminali furono ostacolati dalle difficoltà logistiche, dalla guerriglia partigiana e , infine, dalla caduta del Fascismo che portò all’armistizio dell’8 settembre.

La cattiva e confusa gestione, dovuta anche alla divisione dei campi in base alla autorità competente, cioè o quella militare oppure quella civile (Ministero dell’Interno) nel periodo del culmine degli internamenti (primavera 1943), portarono alla morte di fame e di freddo migliaia di sloveni, croati, montenegrini e rom (il campo di Arbe era attendato, per esempio). I campi si moltiplicarono in tutta Italia, con l’urgenza della situazione dovuta alle mire fasciste nelle zone occupate. Importante fatto storico, è la continuità assoluta della politica mussoliniana appoggiata dal governo Badoglio dopo la caduta del Fascismo, per cui la situazione del confine orientale cambiò ben poco nel periodo badogliano. La liberazione fu ottenuta dopo l’8 settembre, grazie allo sbandamento dell’Esercito italiano con l’abbandono da parte del contingente di sorveglianza.

Ora analizziamo alcuni aspetti della vita quotidiana nei campi fascisti. L’idea dei Mussolini, di recuperare gli antifascisti con il lavoro venne tradotta alla lettera nel campo di concentramento di Matera, dove il lavoro coatto venne sfruttato dal filonazista Eugenio Parrini, impresario e faccendiere con buone relazioni nel Ministero dell’Interno: nel campo oltre ai comunisti e agli antifascisti vennero internati gli slavi.

Commovente è la storia dei rastrellamenti della zona di Cabar, che furono prima nei campi di Arbe e poi a Gonars, nella primavera del 1942 per la maggior parte contadini: venne applicata alla lettera la circolare 3C, presi i famigliari dei sospettati, incendiate le loro case, accerchiate le popolazioni e infine deportate. Riporto dal testo una testimonianza scritta di un bambino che visse queste vicende:

“Anch’io come bambino di cinque anni e mezzo (nato l’8 febbraio del 1937) ho vissuto il destino dei miei compaesani . Il 27 luglio l’esercito fascista incendiò tutto il nostro paese di 24 case e tutto quello che si poteva bruciare. Ci hanno tolto il bestiame, e tutti i paesani che si trovavano nel paese furono mandati a Cabar. Ci dissero che ci avrebbero protetto dai ‘banditi comunisti partigiani’. Figuratevi quale protezione: prima di tutto hanno distrutto e incendiato tutto, poi rubato il bestiame e tutti i beni mobili e ci hanno cacciati in un campo nel quale per la fame e le impossibili condizioni di vita in pochi mesi solo del mio paese sono morte 35 persone. Dal paese vicino (Sokoli) dei 149 abitanti nel campo di Rab nello stesso tempo sono morte 55 persone. Lo stesso è successo per gli altri villaggi”.

Il numero degli abitanti di quella zona passo in cinque mesi da 12263 a 6718 persone. Le terribili condizioni di vita venivano evidenziate in tutte le testimonianze dei sopravvissuti, le fucilazioni e le angherie degli sgherri del regime fascista furono improntate al disprezzo razzista delle popolazioni di quei luoghi: “Qui muoiono i bambini e i vecchi, possiamo appena reggerci in piedi, per mancanza di cibo”, si legge in una testimonianza del lager di Gonars. In tutte le lettere rinvenute nella Prefettura, Commissione provinciale di censura di Udine il tema della morte per fame soprattutto dei bambini è sempre presente: “ci affligge innanzitutto la fame e il freddo. Siamo vestite insufficientemente. Se avessi saputo ciò che mi attendeva, avrei ucciso prima i bambini e poi mi sarei soppressa io stessa, poiché non è possibile sopportare ciò che sopportiamo ora”. Morte, che sopravveniva per le terribili condizioni in cui erano costretti a vivere. Per essere deportati bastava essere sospettati di essere imparentati a qualche partigiano, ma anche per i disegni di pulizia etnica perpetrati dai fascisti per cercare di debellare le basi logistiche della guerriglia.

Testimonianza di Marija Poje, sopravvissuta del campo di Gonars: “A me poi è morto questo bambino appena nato, mi è morto questo bambino dalla fame, dal freddo. E quando questo è morto questo esserino era solo una sembianza di bambino. Era magro, solo ossicini, era come un coniglietto. Due giorni di agonia prima di chiudere gli occhi. E proprio quel giorno per la prima volta gli avevano dato in quei piccoli recipienti che avevano per il caffè un po’ di latte freddo. Ho avuto il latte per la prima volta quando era morto. Poi l’hanno portato via ed ero così malridotta che non ho potuto accompagnarlo neanche fino alla porta della baracca. E sono rimasta là. E ancora adesso ho questo desiderio spaventoso, il desiderio di quella volta. Il ricordo dei giorni terribili che ho desiderato che morisse prima di me. Vivevamo e soffrivamo e io non ho potuto andare là. Non sapevo neanche dove fosse sepolto, comunque non ci avrebbero lasciato andare.” (pag. 157).

Fame causata anche dalle incapacità e dalla corruzione degli ufficiali, che aggravava, nella generale confusione, la vita già pessima degli internati (si pensi alla distribuzione dei pacchi di viveri spediti dalle famiglie degli internati, che spesso arrivavano guasti per l’attesa o non arrivavano per una serie di profittatori e di corrotti che prendevano in mano le consegne). Del resto, la Direzione Generale servizi di commissariato militare del Ministero della Guerra aveva così ordinato di diminuire la razione ai prigionieri politici: “Agli internati politici appartenenti a popolazioni ribelli deve essere somministrata la razione viveri prevista dalla circolare 2064/2595 in data 23/02/1942 per i prigionieri di guerra non impiegati in lavori manuali, con le seguenti varianti: pane gr. 150 invece di gr. 200; carne gr. 100 invece di gr. 120; legumi gr. 20 invece di gr. 30. La razione di 10 gr. di formaggio da raspa deve essere soppressa”: quindi i vertici del regime fascista decisero una vera e propria strategia della fame. I “repressivi”, ovvero i detenuti politici, erano perlopiù uomini, donne e bambini o familiari, sottoposti alla razioni minime e alle diminuzioni ulteriori previste dal Ministero. Le testimonianze infatti sono raccapriccianti: si nascondevano i morti pur di ricevere una razione in più, defunti che venivano scoperti poi quando all’appello non rispondevano. Del resto, come scriveva in un appunto a mano il Comandante dell’XI Corpo d’Armata Generale Gambara “Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo”. In più di scarsa igiene, di malattie come la dissenteria si moriva in questi lager italiani: i continui trasferimenti da un posto all’altro determinavano inoltre la diffusione delle malattie infettive. Il tifo poteva passare dai lager ai soldati di sorveglianza sino alle popolazioni circostanti.

Molti degli internati furono impiegati nel lavoro forzato, per sostenere i costi del sistema concentrazionario e l’economia italiana provata dalla guerra: lavori che potevano essere interni al lager, in veri e propri campi di lavoro o in ditte private agricole, artigianali, industriali o familiari; lavorare assicurava però delle razioni alimentari più elevate, e, presi dalla fame, molti accettavano.

Da sottolineare il vergognoso collaborazionismo della Chiesa cattolica, preoccupata soltanto dalla propaganda comunista all’interno dei campi, minimizzando, come fece il nunzio apostolico in Italia, monsignor Borgoncini-Duca nella relazione al cardinal Maglione sullo stato degli Sloveni internati in Italia, le privazioni di cibo e di alloggio.

Questo breve articolo, breve per l’importanza dei fatti narrati, vuole essere soltanto uno spunto di riflessione sul contesto che portò alla vicenda delle foibe. Ma vuole essere anche un atto di denuncia verso le autorità italiane e il revisionismo storico neofascista: autorità che negarono, che difesero i peggiori criminali, che oltraggiarono nelle memorie difensive le stesse popolazioni che avevano perseguitato, che fecero passare i carnefici per vittime, perpetrando lo stereotipo del fascismo di confine e del Risorgimento dello slavo inteso come barbaro. Il testo della Kersevan, ricco di dettagli e di documenti di cui si è riportato una minima parte, restituisce dignità al lavoro dello storico ed è un atto di giustizia e di denuncia dei crimini, vergognosamente occultati, del Fascismo italiano.

A. KERSEVAN, “Lager italiani, pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941 – 1943”, Nutrimenti, Roma 2008.