martedì 30 dicembre 2008

Un piccolo gesto a favore dei palestinesi

Come a ognuno di noi, soprattutto durante i periodi di festa, capita di dover fare la spesa e magari di acquistare qualche "schifezza" per passare le ore davanti alla TV oppure in compagnia. Bene, volendo acquistare le dannosissime (per la salute) noccioline, passavo davanti allo scaffale e ne avevo visto un tipo: mentre prendevo il sacchetto per metterlo nel carrello della spesa, mi accorgo dall'etichetta (devo dire molto ben in vista) che le stesse provenivano da Israele. Bene, la reazione che ho avuto istintivamente è stata quella di rimetterle al loro posto sullo scaffale: visto che il governo d'Israele non capisce il linguaggio dei diritti umani e del diritto internazionale vediamo se capisce il linguaggio dei soldi. Se questa scelta personale venisse imitata da altre persone forse otterremo il risultato che mille prediche o articoli di denuncia (a cui non dobbiamo comunque rinunciare) non ottengono: cioè la fine del bombardamento criminale della popolazione civile a Gaza, ridotta ormai a vivere come gli ebrei nel "ghetto di Varsavia", e lo stop all'occupazione dei territori palestinesi per farvi insediare i coloni. Insomma proviamo a boicottiare Israele per fermare lo spargimento quotidiano di sangue!!!
PS: è chiaro che l'informazione sta deformando i fatti che accadono. Quello che colpisce è l'atteggiamento della RAI, servizio pubblico, che ormai è il megafono, con il suo innominabile corrispondente, dell'esercito israeliano. La politica italiana quando blatera qualcosa che non sia la questione giustizia o intercettazioni varie perde in realtà una buona occasione per tacere. Il sostegno del PDL alle operazioni militari, il silenzio del presidente Napolitano, il tacito sostegno del PD sono insopportabili (solo i Comunisti Italiani e Rifondazione si sono schierati a favore del popolo palestinese) per qualsiasi persona civile. Rimpiangiamo il Presidente partigiano Sandro Pertini che ebbe il coraggio di attaccare l'allora Primo Ministro, il macellaio Sharon, nel discorso di fine d'anno agli italiani. Non credo che ascolteremo, purtroppo, nulla di simile ora!!

domenica 28 dicembre 2008

Israele terrorizza e distrugge la Palestina

Come annunciato, e, visto che quando il governo israeliano afferma di voler colpire puntualmente lo fa, l'aviazione israeliana ha scatenato i suoi caccia bombardieri contro le infrastrutture e la popolazione civile palestinese nella Striscia di Gaza. Mentre scriviamo tra i palestinesi si contano quasi trecento morti, con una seria minaccia di invasione via terra che sicuramente aumenterebbe di molto il numero delle vittime. E' del tutto evidente la falsificazione delle ragioni e del potenziale delle parti in conflitto: la stampa, per lo più asservita agli interessi sionisti e americani, fa passare questo massacro come lo scontro tra due eserciti di due stati, sebbene, Hamas, pur gestendo politicamente Gaza, sia poco più di un gruppo di guerriglieri,e uno stato palestinese ancora non esista. Mentre i palestinesi con dei razzi (nulla a che vedere con il potenziale missilistico in dotazione all'esercito israeliano, ovviamente) tentano di infastidire la perenne occupazione dei propri territori da parte di sempre nuovi coloni, mentre Israele si permette il lusso nell'impunità più sfacciata di fermare ed espellere gli inviati dell'ONU (mi riferisco a Richar Falk, inviato dell'ONU per i diritti umani), nessuno sente il dovere di richiamare questo stato al rispetto delle risoluzioni dell' ONU stessa, che nulla può verso Israele. Mentre Gaza brucia e muore, l'Occidente tace. Prima che qualcuno fermi i carnefici dobbiamo attendere un'altro massacro tipo Sabra e Shatila?

giovedì 25 dicembre 2008

DOCUMENTO POLITICO DELL’ASSEMBLEA NAZIONALE 13-14 DICEMBRE 2008, TOR VERGATA – ROMA

Riprendo volentieri questo documento degli studenti autorganizzati per consentirne la diffusione, visto che l'analisi e la proposta contenuta sono del tutto condivisibili; mi permetto di suggerire un supplemento di analisi necessario sul tentativo di dare una spallata reazionaria e fascistoide alla nostra Costituzione, con la proposta di presidenzialismo avanzata dal "piduista in affari " che ci governa, dalla complice opposizione parlamentare, e nel tentativo di mettere la Magistratura alle strette dipendenze del Governo (sai che pacchia per i reati del "colletti bianchi" , cioè per i corruttori e i corrotti), per poter perseguitare proprio le sacche di resistenza a questo sistema.


Il 13 e 14 dicembre 2008 si è tenuta all'Università di Tor Vergata un'assemblea nazionale di movimento, nata da un’esigenza largamente condivisa da quei singoli e realtà politiche che hanno attivamente preso parte, in questi mesi, alle proteste contro la legge 133 e contro tutte le misure governative in materia di Scuola, Università e Ricerca.

Dopo una prima fase di mobilitazione, in cui l’agitazione spontanea è stata predominante, si sono infatti cominciate a definire le rivendicazioni e a costruire le piattaforme politiche, entrando nel merito delle tante questioni aperte dal movimento. In questa seconda fase ci siamo resi conto che, condividendo punti di vista e prospettive, era necessario socializzare i percorsi di lotta e le analisi politiche maturate negli ultimi mesi e negli anni precedenti. Naturalmente quest'assemblea non ha rappresentato che un primo passaggio, necessario ma non sufficiente: quello conseguente è lavorare insieme per incidere in maniera efficace sul tessuto sociale e sulla realtà quotidiana.

La due giorni di intensi dibattiti si è articolata in due momenti di confronto assembleari sull'autorganizzazione, e in due tavoli di lavoro plenari, che hanno affrontato il rapporto fra “Scuola e Università, Capitale e Lavoro” e fra “Università e movimenti sociali”. La prima necessità dell'assemblea è stata infatti quella di fare il punto sulle varie esperienze di mobilitazione, e di portare avanti l'analisi teorica in modo da strutturare meglio le proprie pratiche.

Non è quindi un caso che il perno della discussione in tutte le assemblee sia stata la lettura della crisi economico-finanziaria. Differentemente da tutti quelli che hanno sprecato fiumi di inchiostro sostenendo che la “crisi” è solo “crisi della finanza”, noi siamo convinti della necessità di ribadire che si tratta sì di crisi, ma di una crisi di accumulazione capitalistica che viviamo da almeno trent'anni, e di cui la recente deflagrazione finanziaria è soltanto l’ultimo, violento, momento di svolta. I meccanismi di speculazione e indebitamento, che oggi vediamo crollare, non sono infatti il prodotto di alcune “mele marce”, ma una delle strade battute a partire dagli anni '70 per sopperire alle difficoltà di valorizzazione dei capitali. Mettere in discussione il capitalismo significa quindi prima di tutto chiarire che non può esistere un lato 'buono' di un sistema fondato su sfruttamento ed oppressione: finanza ed economia reale sono due aspetti dello stesso modo di produzione. Condannare il capitalismo rapace degli speculatori e delle banche, lasciando intendere che ve ne sia uno buono da difendere, o uno “sostenibile”, significa mistificare la realtà, e cedere le proprie armi critiche al nemico.

Per tentare di uscire da questa crisi di accumulazione, il capitale ha messo in campo diverse strategie: oltre alla finanziarizzazione e al controllo dei fondi e delle politiche monetarie attraverso organizzazioni transnazionali, è ricorso anche alla guerra globale e allo sfruttamento massiccio dei paesi del Sud del mondo (sia delocalizzando lì la produzione, sia abusando delle ingenti risorse naturali di quei territori). I governi e gli imprenditori, con la collaborazione di finte opposizioni politiche e il ruolo attivo dei sindacati concertativi, hanno poi attaccato direttamente le condizioni di vita delle classi subalterne. Hanno tentato di ridisegnare tutta la società, modificando alcuni aspetti fondamentali della sua organizzazione: il ruolo dello Stato, il mercato del lavoro, il sistema pensionistico, la sanità, i trasporti, incentivando lo scempio ambientale e la privatizzazione di risorse quali l'acqua e l'aria. In questo modo hanno limitato e depotenziato la conflittualità sociale, aperto incessantemente nuovi spazi di mercato, suscitato ad arte nuovi, redditizi bisogni.

In questo vasto processo di precarizzazione e sfrenata mercificazione, l’istruzione e la ricerca non sono state risparmiate, ma riformate rispondendo all’esigenza di costruzione di un’economia basata sulla conoscenza. È per costruire uno Spazio Europeo dell’Educazione Superiore e della Ricerca (funzionale, insieme all'Esercito europeo, all'aspra competizione sullo scenario mondiale) che i governi dei paesi membri dell’UE stanno armonizzando i sistemi di istruzione, portando avanti, pressoché ovunque, “riforme” di stampo neoliberista (si pensi alla Francia, alla Spagna, alla Grecia). Indagare le connessioni che esistono tra il sistema formativo, il quadro economico generale e le ristrutturazioni che avvengono a livello europeo ci ha permesso di comprendere in che modo i meccanismi di selezione di classe e di disciplinamento si sono evoluti e si evolvono, proprio a partire da scuole ed università.

Da questo punto di vista, l’introduzione del 3+2, di stage e tirocini obbligatori durante il corso di studi, del sistema dei crediti formativi (CFU), il nuovo ruolo dei privati negli atenei, il life-long learning, lo smantellamento di ciò che resta del diritto allo studio (mense, residenze, borse di studio), sono solo alcuni degli elementi concreti emersi durante la discussione assembleare.

Il credito formativo è stato uno dei punti dirimenti del confronto: la posizione “suggerita” dai report della Sapienza (workshop del 15 novembre), ovvero l’abolizione del sistema dei CFU attraverso un loro “inflazionamento”, è stata messa duramente in discussione. Il credito è definito come la misura del volume di lavoro di apprendimento, compreso lo studio individuale, richiesto ad uno studente in possesso di adeguata preparazione iniziale per l'acquisizione di conoscenze ed abilità nelle attività formative previste dagli ordinamenti didattici dei corsi di studio (cfr. Decreto Ministeriale, 3 nov. 1999, n. 509). Non è altro che una misurazione matematica del tempo di apprendimento (e non della conoscenza) che ha contribuito all'ulteriore dequalificazione della didattica. Esso racchiude la somma di lavoro che va dalla didattica frontale (apprendimento formale), allo studio a casa, fino all’acquisizione di skill e dispositivi pratici sui luoghi di lavoro (apprendimento informale). Non importa dunque l'acquisizione di un metodo, o una complessiva crescita culturale e personale, ma solo il riempimento di tempo “vuoto” con una serie di nozioni parcellizzate. Se dunque da una parte il credito formativo spinge ulteriormente in avanti il processo di mercificazione dei saperi (si pensi anche alle vergognose convenzioni con corporazioni di ogni tipo che le Università hanno sottoscritto per fare cassa, rese possibili proprio dall'introduzione del CFU), dall’altro contribuisce a creare uno standard comune di accesso al mercato del lavoro a livello europeo.

Così, l’ipotesi di “inflazionamento” dei CFU è paradossale e segna un arretramento delle nostre lotte: si dice di criticare il contenuto, ma non si tocca il contenitore. Piuttosto si collabora e legittima il sistema dei crediti, gli si conferisce credibilità presso gli studenti, e si portano, già nella fase della formazione, logiche baronali e di cooptazione, attraverso lo sviluppo di rapporti privilegiati con i docenti e con le autorità accademiche che devono riconoscere il “controcorso” (e che non hanno troppi problemi a farlo, visto che nel quadro di un assoggettamento totale dei percorsi curriculari alle esigenze del capitale, viene prevista quest'irrisoria valvola di sfogo: già la legge Ruberti del 1990 prevedeva attività formative autogestite dagli studenti; Zecchino consente poi che una piccolissima percentuale dei crediti formativi sia riservata ad attività formative autonomamente scelte dallo studente – cfr. stesso Decreto Ministeriale). L'autoformazione con i crediti è così perfettamente compatibile con le esigenze dei poteri accademici e economici, non li scalfisce, ma anzi li rafforza, svolgendo la funzione di moderare le lotte.

L'unica posizione possibile e necessaria è quella di lottare senza ambiguità per l'abrogazione del sistema dei crediti, portando avanti iniziative culturali, incontri, dibattiti davvero autogestiti e orientati in modo antagonista; non facendo tesoro di qualche “lezione” calata da professori o da ricercatori in cerca di visibilità, ma del confronto orizzontale fra i soggetti mobilitati e con soggetti esterni alle università, come lavoratori, migranti, realtà di movimento. Non si tratta insomma di rinchiudersi nelle aule privilegiate del “sapere”, ma di rendere l'Università un luogo di transito per le lotte aperte nelle metropoli e nei territori. Perché l'università non è degli studenti, è, o dovrebbe essere, di tutti, al servizio della collettività.

Bisogna quindi anche mettere in questione tutte quelle proposte volte a sgravare lo Stato dagli oneri del sistema formativo. Si pensi alla spinta pubblicitaria verso i prestiti d'onore, che mirano a far acquistare allo studente il proprio “pacchetto formativo”. Viene caldamente “proposto” allo studente di indebitarsi, per avere la speranza che con la laurea trovi un lavoro ben remunerato, che possa estinguere il debito contratto nei confronti del finanziatore (che può essere una banca, ma anche un'azienda alla quale ci si lega fideisticamente). Così è lo studente che investe su se stesso, con buone prospettive di finire doppiamente ricattato: dal padrone a lavoro e dal “finanziatore” del prestito d'onore. Un tale sistema (proprio come quello dei mutui “drogati”) è in crisi persino negli stessi paesi dove è più radicato, e ha come principali conseguenze l'esclusione sociale, la ricattabilità dello studente, il suo indottrinamento forzato, la spinta a una competizione feroce con i suoi compagni.

Anche i tentativi di abolizione del valore legale del titolo di studio, supportati non a caso da grandi multinazionali, vanno in questo senso. In generale l'obbiettivo del capitale è quello di costruire da un lato un'Università di massa adeguatamente dequalificata, dove si sfornano lavoratori a basso costo, esposti alla precarietà, costretti a cicli di formazione continua e a pagamento (master, corsi di specializzazione etc), che possano rappresentare un “esercito di disoccupati” disperati e in competizione fra loro, e dall'altro lato di creare invece pochi luoghi di formazione altamente selettivi in cui si forma la classe dirigente solidale alle sue esigenze. Da questo punto di vista l'“emergenza”, lo “spreco” e la “meritocrazia” sono i paraventi ideologici con cui si cerca di veicolare riforme che in effetti rafforzano proprio l'arbitrio baronale e la dequalificazione dell'Università pubblica.

Per questo motivo un altro punto cruciale sul quale si è concentrata l’attenzione del movimento è quello della trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato. Una tale possibilità, che per molti atenei diventerà obbligo, comporterà da una parte che l’ingresso dei privati nei dipartimenti diventerà sempre più stabile, dall’altra che quei corsi di laurea che non rispondono a “criteri di produttività” verranno tagliati limitando inevitabilmente la libertà di studio nonché quella di insegnamento e ricerca. In generale, la trasformazione delle università in fondazioni, che è l'estremo effetto della privatizzazione (non si incide più con riforme curriculari o con una generica collaborazione con soggetti privati, ma tagliando nettamente i fondi, e costringendo dunque gli atenei a immettere al loro interno le uniche realtà capaci di erogare liquidità), non farà che aumentare le molteplici contraddizioni in cui l'università è inserita. Contraddizioni articolate su più livelli: fra logiche baronali e politico-clientelari; fra le diverse cordate d'interesse; fra il personale tecnico amministrativo e le dirigenze accademiche; fra le masse sempre più numerose di studenti esclusi dai livelli più alti della formazione e i meccanismi sempre più rigidi di selezione, repressione e controllo; fra le aspettative professionali degli studenti che completeranno il proprio percorso di studi e la loro crescente dequalificazione; fra i capitali stessi, in competizione per assicurarsi corsi di laurea favorevoli e “prestazioni d'opera vantaggiose”; fra Dipartimenti Atenei, Centri di ricerca, in opposizione, contro il buon senso e le pratiche di condivisione in uso fino a qualche decennio fa nella ricerca pubblica, per la registrazione di un brevetto o per accaparrarsi una fetta più grande di finanziamenti.

In questo quadro gli stage ed i tirocini sono un altro aspetto del riassetto dell’istruzione tutta, in funzione del mercato: acquisire conoscenze, attraverso la pratica sul posto di lavoro, è considerato formativo per gli studenti fin dalle scuole medie superiori. Ancora una volta, viene cancellata persino la parvenza di una cultura critica e slegata da logiche aziendalistiche: se da un lato parliamo di prestazioni di lavoro gratuite che permettono, in molti casi, di abbassare i costi per il personale di università e aziende non assumendo per gli incarichi coperti da stagisti, dall’altro il costo della formazione dei soggetti in ingresso (prima integralmente a carico dei privati) viene scaricato sulla collettività.

Stage e tirocini si delineano, quindi, come ulteriore ricatto per i lavoratori, in una fase in cui aumenta giorno dopo giorno il numero dei disoccupati, dei cassa-integrati e dei licenziati e in cui peggiorano visibilmente le condizioni di lavoro dello stesso personale nelle scuole e nelle università: si pensi all'esternalizzazione dei servizi, delle mense, delle biblioteche, che vengono affidate a imprese appaltatrici o subappaltatrici le quali non applicano ai lavoratori nemmeno le poche tutele tradizionali, e su cui il pubblico non ha più alcun controllo (con conseguente aumento del costo dei servizi e diminuzione della qualità).

Alla questione della mercificazione dei saperi è strettamente legato il modo in cui si configurano la didattica ed i suoi tempi nelle nostre aule: il voto, la lezione frontale, i ritmi serrati delle lezioni, sono strumenti che non permettono la fruizione di una cultura che possa realmente formare soggetti critici, ma contribuiscono a riprodurre l’ideologia dominante di cui l’università si fa portatrice. È per questo che non ci si può richiamare a cuor leggero al Trattato di Lisbona o alla Carta europea della Ricerca: questi sono piani per la costruzione di una ricerca funzionale allo sviluppo capitalistico ed a essa subordinata, non certo per lo sviluppo di un sapere libero.

Da questo punto di vista è importante ribadire come per “ricerca pubblica” non si intenda una ricerca genericamente finanziata dallo Stato e non dai privati, ma una ricerca che sia a beneficio della società. Una tale ricerca implica un cambiamento radicale della nostra società, della sua organizzazione politica e sociale. Oggi, anche laddove i fondi sono pubblici, la ricerca ha preso strade che devono assolutamente essere contestate. Sono infatti pesanti le responsabilità del mondo accademico nel prestarsi a fornitore di servizi per l'industria bellica, finendo per essere un utile strumento al servizio delle politiche imperialiste di guerra. E ancora, didattica e ricerca vengono oggi finalizzate allo sviluppo di prodotti farmaceutici, chimici, informatici, che saranno poi brevettati da quelle stesse aziende che ne ricaveranno profitti. Nel campo delle scienze umane questo vuol dire sviluppare sistemi di analisi e controllo, tecniche di promozione pubblicitaria, funzionali all'integrazione, alla spettacolarizzazione, al disciplinamento di vasti settori sociali potenzialmente conflittuali. Nel campo storico-letterario i condizionamenti dei fondi nazionali ed europei permettono una riscrittura della storia e della cultura a vantaggio delle esigenze attuali della classe dominante.

Per quanto riguarda il ruolo nella lotta dei dottorandi e dei ricercatori, soggetti chiamati in causa in prima persona in questo processo di ristrutturazione dell’Università e dello stato sociale, è per loro naturale, o dovrebbe esserlo, trovarsi alleati agli studenti. Come questi ultimi, essi subiscono una selezione di classe, che lascia a pochi la possibilità di andare avanti negli studi e di permettersi lunghe “attese”; per di più essi soffrono anche quei meccanismi di cooptazione e baronato che limitano la libertà della ricerca, ancor più minata dall’ingresso dei privati, con la possibilità (non remota e già presente in alcune facoltà scientifiche) che si ricerchi direttamente su commissione.

È per questo complesso di motivi che non si può parlare di “centralità del capitale cognitivo” o di funzione trainante dell'Università all'interno delle lotte. Non bisogna lasciarsi ingannare da formule demagogiche: da un lato bisogna riconoscere che il lavoro cosiddetto manuale non ha avuto né il tempo né l’agio di sviluppare teorie sulla sua centralità, anzi, è stato fatto sparire dall'informazione e dal dibattito culturale, con la complicità proprio delle elucubrazioni postfordiste; d'altro canto bisogna riconoscere che esso ha sempre di più assorbito funzioni intellettuali (cfr. il problem solving nei processi produttivi, a cui gli operai partecipano quotidianamente), mentre il lavoro “cognitivo” è spesso basato su precise funzioni materiali (cfr. le mansioni amministrative svolte da molti dottorandi e ricercatori). Nel rispetto delle specificità e delle condizioni concrete di vita, bisogna notare che le figure lavorative sono quindi inserite nello stesso ciclo produttivo: entrambe concorrono alla valorizzazione delle merci, entrambe sono esposte a processi di precarizzazione, entrambe vengono private di contratti collettivi nazionali e dei diritti sociali (quali quelli alla casa, alla pensione etc). Le risposte che il capitale ha dato alla sua crisi trentennale hanno tentato in ogni modo di frammentare la classe, opponendo artificialmente il lavoro “cognitivo” al lavoro “manuale”, offuscando i confini spesso molto labili che circoscrivono i due ambiti, e cooptando il primo con privilegi di casta e fornendogli un certo status. Per questo, anche se nel mondo della ricerca ci sono alcuni soggetti in attesa di “inserimento”, o che potranno sempre trovare un remunerato impiego nelle aziende, bisogna rilanciare una larga lotta unitaria fra i tanti che di questa proletarizzazione e scomposizione di classe patiscono le conseguenze.

Si è così giunti a una riflessione più larga sulla connessione che bisogna instaurare fra i diversi ambiti del conflitto sociale. La presenza di esponenti dei movimenti territoriali è stata fondamentale per trovare il legame con le lotte contro la devastazione ambientale e lo scempio territoriale. Non è un caso che nella stessa legge 133/08 sono contenuti, oltre ai tagli all’università, anche le misure di privatizzazione dell’acqua e i finanziamenti per l’energia nucleare. È lampante il nesso che lega lo smantellamento dell’istruzione e dello stato sociale all’attacco all’ambiente e ai territori, soprattutto se si considera, ancora una volta, il ruolo che la ricerca svolge (per volontà del pubblico o del privato) nella devastazione e nello sfruttamento ambientale, e la funzione assolta dai partiti e dai sindacati confederali (in continuità con i ben noti meccanismi clientelari, e spesso persino in collusione con mafie e camorre) nel portare avanti logiche di profitto.

Di fronte alla crisi e al massacro che sta producendo, lavorare sulle contraddizioni, iniziando a fare un discorso che miri dalle nostre università a costruire un lavoro politico che non sia studentista o corporativo, ma abbia la forza di collegarsi alle lotte di tutti gli altri settori che pagano questa organizzazione economico-sociale è dunque una necessità. L’obiettivo di tutti i partecipanti all'assemblea è dunque quello di lavorare nella prospettiva di un confronto stabile tra lavoratori e studenti (che sono lavoratori in formazione, lavoratori di oggi e di domani), assolutamente svincolato dalle pratiche concertative di alcuni sindacati e partiti. Per questo motivo, è stato ritenuto fondamentale proporre la costruzione di assemblee con altre realtà autorganizzate non studentesche per provare a generalizzare realmente le lotte e tendere col tempo ad allargare sempre di più i nodi del conflitto.

In conseguenza di ciò, partendo dalle nostre specificità locali, abbiamo deciso di creare una rete di realtà studentesche che abbia un respiro nazionale, ma che guardi anche alle proteste che si sviluppano, contro le medesime riforme e attacchi, su un piano internazionale. Intendiamo così coordinare in modo efficace le nostre lotte e dare uno sbocco politico alle analisi condivise, dotandoci degli strumenti più opportuni ed efficaci. Tra questi, abbiamo individuato un sito internet, che funzioni come portale di collegamento nonché come mezzo di comunicazione politica, punto di riferimento per quanti, quotidianamente, lottano nella nostra stessa prospettiva. L’autorganizzazione, in questo senso, è stata argomento centrale ed è emersa come caratteristica fondamentale per costruire una struttura orizzontale che riesca a porre nell’agenda politica una pratica realmente conflittuale e di classe. Per aprire da ora, e nei prossimi anni, un lungo ciclo di lotte sociali. Per osare combattere, e osare vincere.

Roma, 14 dicembre 2008

RETE DELLE REALTÀ STUDENTESCHE AUTORGANIZZATE

domenica 21 dicembre 2008

Libertà per Muntazer al Zaidi!!! Fuori gli USA dall'Iraq!!!

Per il bene dell'Iraq, per il valore del gesto, per la ribellione all'occupazione coloniale, per il coraggio di un grande uomo e giornalista (al contrario dei nostri viscidi servi e impostori), Muntazer al Zaidi, invitiamo a sottoscrivere questa petizione per liberare il giornalista detenuto nelle prigioni irachene per aver tirato le scarpe contro l'assassino del suo popolo.

mercoledì 17 dicembre 2008

IL PD, I FURBETTI E I CORROTTI

Non poteva mancare su questo blog comunista una riflessione sulle vicende che vedono protagonista il PD, o meglio la Magistratura che in più parti d'Italia sta mettendo sotto torchio il partito di Walter l'americano e i suoi soci. Per molto tempo ho resistito alla tentazione di farlo, infastidito al solo nominarli, sentirli sparare cazzate sui media e per non rovinarmi la digestione.
Ma tanto grandi sono gli eventi che non si poteva non considerarli, che fanno ormai dire con certezza che il PD ha assunto i comportamenti che furono del Pentapartito degli anni Ottanta, con la differenza, non di poco conto, che non esiste più un grande partito che poteva permettersi il lusso di porre la "questione morale" come grande questione sociale e politica nazionale, essendo il Partito Comunista Italiano allora largamente composto di persone oneste (certo in un partito così grande, con il sostegno di un italiano su tre, qualche mela marcia ci sarà pur stata), che facevano della propria diversità un vanto, un segno distintivo nei bui anni della "Milano da bere" di craxiana memoria. Ma cosa è successo agli eredi di quella formazione politica? Semplicemente che avendo abbandonato gli ideali, volendo sempre più assomigliare agli altri, alla fine ci sono riusciti: rinnegandosi del tutto, di abiura in abiura (tentando anche di riabilitare Craxi stesso, o , peggio ancora, le motivazioni di chi scelse la Repubblica fascista di Salò - ma questo è un altro livello) hanno finito per essere del tutto uguali agli altri, che erano i corrotti della Prima Repubblica.
L'elenco delle inchieste, degli scandali, è imbarazzante: già all'epoca di Bancopoli, nella vicenda dei "furbetti del quartierino", il coinvolgimento di D'Alema e Latorre in primis avrebbe suggerito una seria riflessione, finchè poi si è finita quasi per dimenticare questa vicenda, E allora eccoci nell'autunno 2008 con una serie impressionante di inchieste che toccano gli enti locali, con indagati dirigenti regionali e nazionali: senza fare l'elenco, che è davvero senza fine, quello che emerge è l'intreccio perverso tra politica e affari, di favori e corruzione, che può solo produrre rabbia. E in effetti in Abruzzo i risultati si vedono: perdono il14% dei voti in pochi mesi, praticamente stanno sul 19%, e pensate cosa poteva succedere se si fosse saputo del sindaco di Pescara e delle vicende di Napoli di queste ore. E' una vergogna che fa incazzare, che consente a Berlusconi (che dovrebbe solo tacere in materia di processi, visto l'impegno del PDL a cambiare le leggi in base alle esigenze dei suoi processi, uno schifo di dimensioni mondiali - e basta pensare alla Sicilia e a Catania sull'orlo del fallimento per far capire di che pasta sono fatti i "destri) di sfruttare questa occasione per portare a termini i suoi disegni eversivi e piduisti e sottomettere la Magistratura al potere politico (con i poveri in galera, i grandi delinquenti, narcotrafficanti e mafiosi magari nei ministeri). Se anche il PD si accodasse alle esigenze di riforma (prepariamoci a difendere la Costituzione, che al piduista va sempre più stretta) del Cavaliere, il quadro sarebbe chiaro nella gravità assoluta: un paese in crisi recessiva, senza speranza, con la fuga dei migliori all'estero, un paese per scorribande di criminali di alto livello, con pezzi di territorio dominato dalle varie mafie colluse con la politica. Un paese condannato e pericoloso (soprattutto per chi lavora, visto che ne muore uno ogni 7 ore), dove si vive sempre peggio, con precariato, stipendi e salari ridotti al minimo , pensioni da Terzo Mondo (per chi comunque è fortunato che ne ha una) e raccomandazioni con ricatti a tutti i livelli. Insomma una tragedia: chi ha votato in buona fede questi signori, credendo ingenuamente che fossero un'alternativa a Berlusconi, si ribelli e mandi al diavolo questi cialtroni: una parte della nostra società è in fermento, i ragazzi dell'Onda e i lavoratori in sciopero lo hanno dimostrato. Ripartiamo dai lavoratori, dai disoccupati e dai precari, che se ne vadano al diavolo questi servi benestanti e grassi del potere. IMPEDIAMO A QUESTA GENTE DI METTERE MANO ALLA COSTITUZIONE NATA DALLA RESISTENZA!!!

martedì 16 dicembre 2008

"Questo è il bacio di addio del popolo iracheno, cane!!!"

Un giornalista sconosciuto, un iracheno che non sopportava l'occupazione militare angloamericana del suo paese, i morti e lutti inflitti da una guerra promossa da un criminale sanguinario Presidente degli Stati Uniti, individuo spregevole a capo di un'Amministrazione di farabutti, George W. Bush, ha lanciato le sue scarpe verso uno degli uomini più potenti del pianeta, burattino delle banche e del complesso militar-industriale: un gesto che colpisce per il disprezzo che esprime, l'offesa più grande che nella cultura araba può essere fatta ad un uomo. Muntazar al-Zaydi, racconta Repubblica in questo articolo , è stato un comunista che dopo l'invasione del suo paese aveva preso una posizione netta contro l'occupazione coloniale, schifato dalle nefandezze compiute dai militari americani. Lui, per questo gesto rischia sette anni di carcere, e di lui, picchiato in mondovisione dagli uomini della sicurezza, già non si hanno più notizie. Il Presidente più fallimentare della storia americana, ammettendo che l'occupazione è stata un "errore", se ne andrà invece a passare il resto della sua vita nel suo grande ranch texano: un criminale di guerra, un genocida, uno che ha condannato a morte le popolazioni afghane e irachene invece si godrà in pace le sue enormi ricchezze. Compito nostro dovrebbe essere di far in modo che venga tradotto insieme ai sui complici davanti ad un Tribunale internazionale per i crimini di guerra in Iraq, che venga giudicato per quello che ha compiuto a danno di un popolo civilissimo che merita ogni stima.

giovedì 11 dicembre 2008

"HIGH OCTANE CAPITALISM AHEAD" ovvero il pugno allo stomaco ricevuto leggendo Paolo Barnard

Leggendo Comedonchisciotte, coraggioso blog di informazione alternativa, ci si imbatte in un post dal blog di Paolo Barnard, che non può lasciare indifferenti. La prima sensazione che si ha è quella del pugno allo stomaco: la constatazione, buttata giù con parole dirette, della vittoria totale del Capitalismo dei Beni di Consumo nei confonti di qualsiasi alternativa di sistema. Paolo Barnard raccota di un manifesto eloquente di Forbes , sfacciato nelle celebrazione della vittoria; una vittoria così totale che nessun messaggio lanciato in più di due secoli di storia, con tutto quello che è accaduto, gli è sopravvissuto. Esiste solo la dimensione del consumo, con i suoi riti, le sue scadenze, la sua ansia provocata, e tutta la vita non è altro che una scansione di tempi decisa da alcuni personaggi di destra, alcuni dei migliori pensatori del pianeta, che, assoldando le classi dirigenti, disponendo di mezzi finanziari illimitati, ragionando disciplinati e compatti, per molti anni, con il solo scopo di costruire un sistema talmente totalitario da far impallidire i vecchi regimi del Novecento, hanno edificato una società con un consenso elevatissimo proprio nelle masse popolari. Barnard, giustamente, ponendosi il problema dell'egemonia di tale "pensiero unico", individua alcune possibili iniziative, come lo studio e la stessa disciplina usata dagli avversari, la pazienza e, purtroppo per noi (perchè questo è veramente difficile) la necessità di avere una fonte di finanziamenti per poter mettere su questo "esercito" di pensatori, in modo da poter iniziare un paziente lavoro tra i popoli del pianeta, per trovar il modo di convincere milioni di persone a cambiare stile di vita.
Mi permetto qualche osservazione sui un ragionamento che largamento condivido: è vero, le persone oggi, nonostante le difficoltà, indottrinate dalla pubblicità, invogliate in ogni modo a consumare (anche con una marea di debiti) finchè possono spendono. Ma non credo che questa sia una crisi passeggera, si parla di una ristrutturazione globale dell'economia, che sicuramente lascerà numerosi lavoratori nella disoccupazione: quello che bisogna vedere è quale è il limite di rottura degli equilibri, perchè già in Grecia questo limite è stato superato (in realtà gli scontri erano già iniziati prima della morte di Grigoropoulos). La morte del quindicenne ha incendiato una società già carica di tensioni sociali, che ovviamente sono esplose alla prima occasione. Quello che potrebbe succedere però, è una sorta di serie di manifestazioni di violenza e rabbia incontrollabili, senza alcuna speranza di cambiare le cose, solo gesti di disperazione che portano a guai ancora più grossi. Questo accade se non si hanno progetti politici e sociali alternativi: la società del consumo abbaglia, è bella, colorata, seducente, e se tu non puoi accedere a tanto benessere, a cui eri abituato, se non arrivi a fine mese, è chiaro che vivi nella preoccupazione e nella frustrazione, pronto ad esplodere alla prima occasione. E questo è estremamente pericoloso se non ci sono alternative praticabili (fa solo il gioco di chi comanda). Insomma, quello che abbiamo davanti, è il classico tema dell' egemonia (definita da Antonio Gramsci come dominio culturale di un gruppo o di una classe che «sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo"); proprio per questo mi chiedo se quel gruppo di intellettuali e di attivisti disciplinati che Barnard auspica, dediti allo studio e a questa "guerra di posizione", non potrebbe essere un nuovo partito comunista, una vera e propria nuova internazionale, una nuova forza politica dei lavoratori alleati agli intellettuali che non getti alle ortiche quanto di buono c'è stato nella storia del movimento operaio del Ventesimo Secolo.



sabato 6 dicembre 2008

Alla memoria degli operai della ThyssenKrupp, ammazzati e sacrificati per il profitto della loro azienda

Da acuto osservatore della condizione operaia, analista fine delle contraddizioni del sistema, Karl Marx scrisse questo pezzo di rara umanità e intelligenza nel libro terzo del Capitale:
"Il modo di produzione capitalistico, come da un lato permette lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, dall'altro spinge all'economia dell'utilizzazione del capitale costante (cioè mezzi di lavoro e materie prime).
Tuttavia non solo esso rende reciprocamente estranei e indifferenti da un lato l'operaio, che rappresenta il vivo lavoro, dall'altro l'utilizzazione economica ovvero razionale delle condizioni di lavoro. Per giunta, in conformità alla sua natura piena di contraddizioni, esso arriva a comprendere tra i mezzi per risparmiare capitale costante e quindi accrescere il saggio del profitto lo sperpero della vita e della salute dell'operaio e il peggioramento proprio delle sue condizioni di esistenza. Dato che l'operaio dedica la maggior parte della propria esistenza al processo produttivo, le condizioni di quest'ultimo rappresentano per lo più le condizioni del processo attivo della sua esistenza, le sue proprie condizioni di vita; risaparmiare nel campo di queste condizioni di vita è un metodo per aumentare il saggio del profitto, esattamente come [...] l'eccesso di lavoro, la trasformazione dell'operaio in animale da lavoro, è un metodo per accelerare l' autovalorizzazione del capitale, la produzione del plusvalore. Tale economia arriva sino al punto di sovraffollare gli operai in ambienti angusti, malsani, il che con parole capitalistiche viene chiamato economia di costruzione; ad ammassare macchine pericolose negli stessi locali, senza opportuni mezzi di protezione contro tale pericolo; a dimenticare misure precauzionali nei processi di produzione che in genere siano dannosi alla salute o comportino rischi, come nelle miniere ecc. Per non parlare poi della mancanza di qualunque provvidenza destinata a rendere più umano il processo produttivo, a renderlo gradevole o almeno sopportabile. Questo da un punto di vista capitalistico sarebbe uno sperpero inutile e sciocco".
K. Marx, "Il Capitale", vol. III, Sez. I, "La conversione del plusvalore in profitto".
Dedicato alla memoria degli operai della ThyssenKrupp e ai morti sul lavoro!!!!

mercoledì 3 dicembre 2008

Giornata di Protesta contro la legge ammazzablog

Questo blog aderisce alla giornata di protesta contro la legge ammazzablog e contro le proposte fascistoidi di censura del libero pensiero. Il blog ha le scritte nere appositamente per l'evento: intanto il presidente del Consiglio pensa di regolamentare la rete; l'allarme e la protesta devono impedire a questo massone piduista di tapparci la bocca